Sono un fotografo di merda e ti spiego il perchè.
Il titolo può sembrare provocatorio, lo capisco, ma credimi non lo è affatto.
Si, mi ritengo un fotografo di merda, ma è alquanto naturale.
Quando ho iniziato a fotografare vivevo di gratificazioni basilari: famiglia prima, amici poi.
Man mano che la mia conoscenza del mezzo aumentava, la mia autostima cresceva più che esponenzialmente.
Poi arrivarono pure le gratificazioni professionali, il mio lavoro cresceva, la gente sembrava apprezzare quello che facevo. E tutto ciò mi inorgogliva, non posso negarlo.
Mi sentivo realizzato, stavo cavalcando il mio sogno.
Ma stavo trascurando qualcosa. Qualcosa di fondamentale, a dire il vero la più importante.
La conoscenza della fotografia.
E non mi riferisco all’aspetto tecnico, quello si impara in 3 giorni e si alimenta con l’esperienza e le prove sul campo.
Mi riferisco all’ambito culturale in cui IO ho scelto di operare.
Si perchè di ambito culturale si tratta e questo comporta degli oneri.
Il cui primo fondamentale è: rispettare la fotografia.
Ma cos’è la fotografia?
Da dove proviene il nostro sguardo?
Cosa spinge l’uomo a fotografare?
Qual è l’intento?
Domande che non mi ero mai posto fino a quel momento, troppo preso nel trovare soluzioni per aumentare il numero di clienti e nell’aggiornare il mio arsenale fotografico.
Quindi mi ritrovavo, dopo anni di pratica costante, al cospetto di una grande mancanza culturale. Io non sapevo nulla di nulla.
Sapevo come utilizzare una macchina fotografica, come ricevere apprezzamenti, come far crescere il mio studio, come fotografare una sposa al trucco.
Ma avevo raggiunto un limite.
E per ironia della sorte, quel limite si trovava esattamente all’apice della mia auto-considerazione.
Mi sentivo un grande.
Questo è un fenomeno molto consueto, recentemente ne hanno discusso in tanti, viene definito Dunning Kruger. Cioè, quando, per farla breve, credi di avere più capacità di quelle che in realtà hai.
E’ stato in quel momento che ho deciso totalmente di rivolgere il mio interesse verso lo studio della fotografia.
Una corsa disperata, recuperando terreno perduto.
Inizio dalla storia della fotografia, dall’evoluzione dello sguardo, dall’intento dei grandi autori.
Non conoscevo Bresson, ma sapevo esattamente chi fossero i fotografi di matrimonio nel mio ambiente.
Se prima catalogavo le immagini con un semplice mi piace/non mi piace, adesso ne vivisezionavo ogni aspetto.
Chi ha scattato questa immagine?
Perchè l’ha scattata?
In quale contesto?
Quale vissuto lo ha portato a rivolgere interesse verso questa tematica?
Man mano che mi addentravo in questo mondo meraviglioso, che usciva drammaticamente dal tecnicismo ed entrava nel mondo del cognitivo, del pensiero e della sua traduzione in immagine, immagazzinavo come una spugna ogni tipo di emozione.
Si, perchè le emozioni vanno immagazzinate.
Guardando un’opera (che sia fotografica o di altre arti) dovremmo essere in grado di chiudere dentro un barattolo quello che sentiamo e provare a tradurlo in immagine seguendo un nostro linguaggio. E non dovremmo limitarci al fotografico, ma dovremmo farci contaminare dall’arte in se.
Perchè la fotografia è contaminazione culturale.
Ma più il mio bagaglio si riempiva di informazioni e più i miei riferimenti culturali mi portavano a confrontarmi con un mondo più alto.
“So di non sapere” diceva Socrate.
Ho ancora un botto da conoscere rispondo io, in maniera molto meno filosofica. Tutto questo procura un danno, ferisce il tuo ego, quasi lo azzera.
Più conosci e più ti rendi conto di non sapere.
Ed e così che la tua auto-valutazione crolla, vertiginosamente.
Perchè si basa su paragoni virtuali che ti poni.
Pensavo di essere un buon fotografo, ma in realtà sono solo un fotografo di merda che ha aperto gli occhi e che sta correndo per recuperare.
Maledetto quel giorno che ho incontrato Bresson.
I contest, le associazioni e i ballerini al saggio i danza.
Aspettate... Vi dico subito che questo non è un altro articolo contro i contest e le associazioni tipiche dei Fotosauri che passano le giornate a criticare questo e quell'altro mondo senza rendersi conto che adattarsi ai tempi è vitale in qualsiasi ambito.
A dire la verità, odio le critiche senza dare alcuno spunto di riflessione e possibili soluzioni: essere critici ad ogni costo non vi rende fighi. La critica forse è diventata paradossalmente pure uno strumento di marketing inseguendo la chimera dell'anticonformismo e dell'IO sono diverso da questi quattro stronzi. Bah ! Ognuno fa e dice ciò che vuole.
La mia riflessione del giorno volge a favore di tutto quello che può nascere dietro questi appuntamenti, dove se lo spirito è quello giusto, non si può fare altro che crescere.
Lo dico nonostante io in prima persona sia davvero pessimo nella gestione di tutto questo, dimentico le scadenze, non sono un "associazionista", mando progetti a metà, non partecipo a tanti meeting, questo non per disinteresse ma per priorità.
Dicevo dello spirito giusto, prendo l'esempio del ballerino ad un saggio di danza: ogni ballerino vuole fare bella figura, per se stesso e per chi lo guarda. E' quindi giusto allenarsi e presentarsi nella migliore condizione possibile, in fin dei conti è il risultato di un anno di passione per quello che si fa...
Ma, quello che potrebbe accadere è che ogni tanto tale ballerino perda di vista che si tratta appunto di un saggio di danza e non di una performance alla Scala di Milano, ne' tantomeno al Bolshoi moscovita.
Credo e non me ne voglia nessuno ovviamente, che a volte anche noi perdiamo di vista quest'aspetto. Perché la fotografia è davvero un'altra cosa, Quello che facciamo richiede impegno, sacrificio e studio e quindi stra-umano ricercare consensi e gratificazioni, ma non bisogna mai perdere di vista la realtà... in fin dei conti... siamo solo ballerini ad un saggio di danza.
L'album di famiglia e le foto di gruppo
La foto di famiglia, apice della noia, sia per il fotografo che per il fotografato, é in realtà come il vino. Più invecchia e più è buono, ma se ne bevi troppo rischi di vomitare.
Non è stato molto tempo fa, avevo già qualche capello bianco, quando ho sfogliato per la prima volta l’album dei miei genitori.
Un’orribile (spero non leggano mai questo post) album di un metro e mezzo, in cuoio, con cuciture ai bordi.
L’ho già definito orribile vero?
Sfogliando, mi soffermavo spesso ad osservare le foto di famiglia. Perchè?
Perchè essendo coinvolto, osservavo l’evoluzione fisionomica dei superstiti e riportavo in vita le memorie di chi oggi non c’è più.
Si perchè, una foto di famiglia, apice della noia, sia per il fotografo che per il fotografato, é in realtà come il vino. Più invecchia e più è buono, ma se ne bevi troppo rischi di vomitare.
Lentamente si trasforma, da una banale collezione di belle statuine, in un cassetto della memoria che ti fa riaffiorare mille storie, mille aneddoti, mille pensieri.
Riecheggiano parole, sensazioni ed un intero vissuto accanto a quelle persone.
Mia nonna, ad oggi immensa jukebox delle lamentele, allora mostrava un sorriso fiero ed emozionato.
Ho scoperto che mia zia è stata giovane, pensavo fosse nata di 50 anni e oltre.
Mio zio, 40 anni in meno e 50 chili in più.
Ho persino scoperto di avere una cugina di cui sconoscevo l’esistenza.
Ora so pure cosa c’è sotto quell’imbarazzante riporto che porta un vecchio amico di famiglia.
E mia mamma?
Mia mamma con la faccia triste da 2 Novembre (giorno dei morti), è l’unica che ha mantenuto fedelmente la sua espressione immutata fino ad oggi.
Mia mamma….
Devo ammettere che proprio l’album, mi ha mostrato parte della sua genialità. Fra poco vi svelerò il perchè.
Continuando a sfogliare… davanti a me centinaia di foto di due teste (sempre la stessa foto) appiccicate con dei fotomontaggi lontani antenati di Photoshop, su sfondi di ogni genere.
Praticamente la stessa foto di mio padre e mia madre che si guardavano, lui con sorriso paraculo e lei con sguardo rigorosamente “scazzato”, era stata attaccata in un sfondo albeggiante, in montagna, al mare, su un prato fiorito, su una barchetta di legno, dentro una margherita e potrei continuare.
Sfinito da questo orrore visivo, arrivo all’ultima pagina.
Ed è qui che la genialità di mia mamma si manifesta come non avevo mai visto prima.
Avviandomi stremato, verso la foto di chiusura, immaginavo qualcosa del tipo “le loro teste montate su uno sfondo di fuochi d’artificio”. Ma non fu così. L’ultima foto è stata sostituita manualmente da qualcos’altro.
Perfettamente incorniciato, con un rigore geometrico, mai visto durante tutto l’ album, mia mamma “la triste” fa il suo di montaggio:
Il certificato di divorzio!
Ecco ha vinto. 99 Punti a mia mamma.
Il 100 poteva guadagnarselo con un piccolissimo sforzo in più, attaccando accanto una sua faccia sorridente e il dito medio in evidenza.
La bellezza di una pessima foto.
Avevo 16 o 17 anni e mi trovavo a casa dei miei nonni, esattamente in cucina.
Dino, mio nonno, stava preparando il suo piatto forte, la pasta con le sarde. Quel piatto non l’ho mai amato ma non ho mai avuto il coraggio di dirglielo. Quello che amavo, invece, era la passione che metteva nel prepararla, mi colpiva talmente tanto che alla fine chiudendo gli occhi riuscivo a dargli tutti i gusti del mondo.
Maria, mia nonna, nell’altra stanza, guardava il gran premio di Formula 1.
Che personaggio mia nonna! Guardava qualsiasi forma di sport, dal tiro al piattello alla formula Uno. Ma soprattutto era una tifosa sfegatata del Milan. Il che, con me interista, il giorno del derby, trasformava quel salone in una specie di Primo anello di San Siro, con tanto di sfottò e piccoli tafferugli domestici.
Mia nonna era un’adorabile rompicoglioni. Lo era sopratutto con mio nonno. Non gli lasciava spazio per respirare.
Faceva tutto lui, cucinava, la accompagnava dal parrucchiere, le parcheggiava la macchina.
Quando, sfinito, sfiorava la poltrona per lasciarsi andare in un meritato riposo, ecco mia nonna gridare dall’altra stanza:
”Dinooooo”.
C’era sempre un valido motivo per chiamarlo. Mio nonno ha vissuto in piedi.
Ora, la mia famiglia era già un disastro. I miei genitori vivevano da separati, i genitori di mio cugino altrettanto.
Per questo io e Gabriele (mio cugino), ci chiedevamo spesso, “ma come fa il nonno a non mollare la nonna?”.
Perchè mollare qualcuno era diventata la normalità nelle nostre vite. Tutti si separavano, i miei genitori, i miei zii, i genitori dei miei amici. Praticamente chiunque.
Allora perchè lui non lo faceva?
“Scappa Dino!!!”.
Lo avrei voluto gridare mille volte. Ma non lo feci mai.
Eppure quel giorno in cucina, mentre Dino, estirpava sapientemente le lische dalle Sarde, mi presi di coraggio e gli chiesi:
“Dino, ma come hai fatto a stare con la nonna tutti questi anni?”.
Lui, non sembrò particolarmente colpito da questa domanda. Sembrava quasi che la stesse aspettando. Aveva la risposta pronta nel cassetto “Lezioni di vita per Edoardo”.
Quindi dovette solo rispolverarla.
“Sono innamorato dei suoi difetti”. “Lei mi riempie con le sue imperfezioni”.
Avevo 16 o 17 anni quando il mio mondo prese un’altra forma. Quel giorno mi resi conto di quanto mio nonno avrebbe influenzato la mia vita, il mio sistema di credenze, i miei valori.
Mi ha donato l’amore ed il suo significato.
Oggi penso a questo, e lo faccio guardando una fotografia scattata proprio dentro quella cucina.
Una pessima fotografia, un’immagine sbagliata.
Non la scattai quel giorno, non stava neanche cucinando la pasta con le sarde, fortunatamente. Ma l’immagine imperfetta, mi riporta li.
E’ il mio legame con quel passato che vive ancora e morirà con me. Quante foto avrei voluto fargli, quante storie avrei rivissuto esattamente come oggi. Quante storie avrei potuto illustrare a chi mi sta vicino. Avrei potuto raccontare me, attraverso un’immagine che non mi ritraeva nemmeno.
Tutto questo per una pessima fotografia, un’immagine sbagliata.
Ma io ne amo i suoi difetti.